In una sala d’attesa di un ospedale viennese, la scena è emblematica: un paziente appena arrivato dal Nord Africa cerca di capire le istruzioni per un farmaco, ma la barriera linguistica lo blocca. La soluzione improvvisata della giornata è un’app di traduzione sul telefono della infermiera, che riproduce il testo in arabo. Il paziente annuisce, ma resta il dubbio se abbia davvero compreso o se stia solo mostrando cortesia. A pochi passi, un cartello scritto a mano ricorda che è disponibile un interprete: nessuno, però, lo utilizza.
Questo episodio riflette una realtà diffusa in Europa, dove la comunicazione sanitaria si muove tra creatività, urgenza e silenzi. Con quasi il 10% della popolazione dell’UE nata fuori dall’Unione e un ulteriore 4% residente in un Paese diverso da quello d’origine, il divario linguistico e culturale limita concretamente l’accesso alle cure. Le conseguenze sono tangibili: studi dimostrano che i pazienti che non riescono a comunicare adeguatamente hanno fino al 50% di probabilità in più di subire errori medici, e i problemi di comunicazione sono tra le principali cause di esiti negativi.
Le app di traduzione non bastano. Una ricerca pubblicata nel 2015 su BMC Health Services Research ha evidenziato come persone di culture diverse descrivano dolore e sofferenza con termini e metafore specifiche, difficili da interpretare anche per chi conosce bene la lingua. Il divario, dunque, non è solo linguistico ma culturale. Emil, giovane medico a Vienna, racconta di aver incontrato pazienti che parlano di “dialogo con Dio”: un’espressione di fede che rischia di essere fraintesa come sintomo psichiatrico da personale formato in un contesto occidentale.
Ali Iravani, imprenditore iraniano cresciuto a Vienna, sottolinea come i pazienti parlino nel proprio dialetto, mentre i medici utilizzano termini tecnici. Spesso, a colmare il vuoto comunicativo sono i familiari, soprattutto i bambini. Ali ricorda di aver tradotto per i suoi genitori da piccolo, un compito che lo ha segnato. Una studentessa britannica racconta esperienze simili: da adolescente traduceva per la madre malata cronica, ricevendo notizie che la spaventavano e che talvolta ometteva per guadagnare tempo e metabolizzare.
Questi frammenti di vita mostrano come la sanità europea si trovi di fronte a una sfida cruciale: garantire che la cura non sia ostacolata da barriere linguistiche e culturali. Perché la comprensione, in medicina, è spesso la prima forma di terapia.

