Giugno 8, 2025

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Tra crescita e recessione: l’equilibrismo economico degli Stati Uniti secondo Trump

“La cosa importante è che l’economia cresca più velocemente del debito.” Con queste parole, il segretario al Tesoro Bessent ha riassunto una delle grandi verità dell’economia americana. Ma il grafico che accompagna la sua dichiarazione – diffuso dall’analista Luke Gromen – racconta una realtà più complessa: negli ultimi 60 anni, il rapporto debito/PIL degli Stati Uniti è diminuito solo in due tipi di scenari. O in periodi di alta inflazione, come tra il 1965 e il 1985 o più recentemente tra il 2020 e il 2023, oppure durante bolle speculative, come quella tecnologica degli anni ’90.

In entrambi i casi, gli investimenti a lungo termine in titoli del Tesoro americano (i cosiddetti “long-term USTs”) tendono a soffrire. Se l’inflazione cresce, il valore reale dei rimborsi futuri si erode. Se si forma una bolla finanziaria, i capitali si spostano su asset rischiosi e più redditizi, lasciando i titoli sicuri a rendimenti più bassi.

Ma è un’altra riflessione – riportata da The Kobeissi Letter – a far discutere gli osservatori: e se un rallentamento economico fosse, paradossalmente, proprio quello che Donald Trump desidera?

Secondo alcuni analisti, una recessione potrebbe aiutare Trump a raggiungere molti dei suoi obiettivi economici in un colpo solo:

  1. Abbassare l’inflazione, riducendo la pressione sui prezzi al consumo;
  2. Far calare i rendimenti dei titoli di Stato, rendendo più facile finanziare il debito;
  3. Ridurre il disavanzo commerciale, anche grazie a tariffe doganali;
  4. Spingere la Fed a tagliare i tassi d’interesse, allentando la stretta monetaria;
  5. Far scendere il prezzo del petrolio, aiutando consumatori e imprese.

Dopo l’aumento improvviso dei rendimenti obbligazionari, pare che la sola leva comunicativa – come gli annunci su nuovi accordi commerciali – non basti più a influenzare i mercati. Così, per alcuni, una recessione “strategica” potrebbe risultare più efficace di quanto sembri.

È una visione cinica, forse provocatoria, ma non del tutto fuori luogo nel contesto attuale: un’America che cerca di contenere il proprio debito senza sacrificare la crescita. E una politica economica dove, a volte, il male minore può sembrare l’unica strada possibile.

Addio al centesimo: gli Stati Uniti dicono basta alla moneta da un penny

È la fine di un’era per le monetine di rame che da più di un secolo tintinnano nelle tasche degli americani. Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha annunciato che presto non verranno più coniati penny: l’iconica moneta da un centesimo è destinata a scomparire.

La decisione, confermata da una portavoce del Tesoro e anticipata dal Wall Street Journal, arriva dopo anni di dibattito e porta con sé un risparmio significativo: ogni penny, infatti, costa quasi quattro centesimi per essere prodotto. Un paradosso che, secondo i calcoli del governo, pesa per circa 56 milioni di dollari ogni anno.

L’ex presidente Donald Trump aveva già lanciato la proposta di eliminarli lo scorso febbraio, presentandola come una misura di buon senso economico. Ora, con l’ultima ordinazione di metallo grezzo per i penny già effettuata, il conto alla rovescia è iniziato: una volta esaurite le scorte, la produzione sarà ufficialmente chiusa.

Gli Stati Uniti non sono i primi a compiere questo passo. Paesi come il Canada, la Nuova Zelanda e l’Australia hanno già abbandonato le loro monete da un centesimo, adattando la propria economia a un sistema di arrotondamenti automatici nei pagamenti in contanti.

Per molti americani, il penny non era più utile da tempo. Eppure, per altri, resta un simbolo culturale legato alla figura di Abraham Lincoln e al mito della parsimonia quotidiana. Con la sua uscita di scena, si chiude un piccolo ma significativo capitolo della storia monetaria degli Stati Uniti.