Giugno 8, 2025

America

Trump vs Musk: Scontro Senza Precedenti

Lo scontro tra Donald Trump ed Elon Musk si è acceso, con il presidente degli Stati Uniti che ha dichiarato di essere molto deluso dal patron di Tesla e SpaceX. Trump ha affermato: “Non so se continueremo ad avere un buon rapporto”, lasciando intendere una rottura definitiva tra i due.

Musk, dal canto suo, ha risposto con un laconico “Pazienza”, ma nelle ore successive ha rincarato la dose, accusando Trump di ingratitudine. Secondo Musk, senza il suo sostegno e la spinta delle sue piattaforme, Trump avrebbe perso le elezioni presidenziali, la Camera e avrebbe avuto solo un seggio di maggioranza al Senato.

La tensione tra i due è aumentata dopo che Musk ha criticato il disegno di legge su tagli e spesa proposto da Trump, definendolo un “disgustoso abominio”. Il presidente ha risposto minacciando di cancellare i sussidi federali e i contratti governativi con le aziende di Musk.

Nel frattempo, Musk ha lanciato un sondaggio su X chiedendo ai suoi follower se fosse il momento di fondare un nuovo partito politico negli Stati Uniti, ottenendo un 84% di voti favorevoli.

Il presidente degli Stati Uniti ha dichiarato che Musk “è impazzito”, annunciando che il modo migliore per tagliare la spesa pubblica è cancellare i contratti governativi con le sue aziende, tra cui Tesla e SpaceX.

Musk ha risposto con una dichiarazione shock: “Sgancio la bomba. Il suo nome è nei file di Epstein, ecco perché non sono stati resi pubblici”. L’accusa ha immediatamente scatenato un’ondata di reazioni, con richieste di chiarimenti e speculazioni sulla veridicità delle affermazioni.

Tesla crolla a Wall Street

Lo scontro ha avuto conseguenze dirette sui mercati finanziari: le azioni Tesla hanno registrato un crollo del 14%, bruciando 152 miliardi di dollari di capitalizzazione e scendendo sotto la soglia simbolica dei mille miliardi di dollari.

La crisi tra i due potrebbe avere ripercussioni economiche e politiche di ampia portata, con Musk che ha persino lanciato un sondaggio su X chiedendo ai suoi follower se fosse il momento di fondare un nuovo partito politico, ottenendo un 84% di voti favorevoli.

La Casa Bianca ha programmato una telefonata tra Trump e Musk per cercare di gestire la crisi, ma il rapporto tra i due sembra ormai compromesso.

Tra crescita e recessione: l’equilibrismo economico degli Stati Uniti secondo Trump

“La cosa importante è che l’economia cresca più velocemente del debito.” Con queste parole, il segretario al Tesoro Bessent ha riassunto una delle grandi verità dell’economia americana. Ma il grafico che accompagna la sua dichiarazione – diffuso dall’analista Luke Gromen – racconta una realtà più complessa: negli ultimi 60 anni, il rapporto debito/PIL degli Stati Uniti è diminuito solo in due tipi di scenari. O in periodi di alta inflazione, come tra il 1965 e il 1985 o più recentemente tra il 2020 e il 2023, oppure durante bolle speculative, come quella tecnologica degli anni ’90.

In entrambi i casi, gli investimenti a lungo termine in titoli del Tesoro americano (i cosiddetti “long-term USTs”) tendono a soffrire. Se l’inflazione cresce, il valore reale dei rimborsi futuri si erode. Se si forma una bolla finanziaria, i capitali si spostano su asset rischiosi e più redditizi, lasciando i titoli sicuri a rendimenti più bassi.

Ma è un’altra riflessione – riportata da The Kobeissi Letter – a far discutere gli osservatori: e se un rallentamento economico fosse, paradossalmente, proprio quello che Donald Trump desidera?

Secondo alcuni analisti, una recessione potrebbe aiutare Trump a raggiungere molti dei suoi obiettivi economici in un colpo solo:

  1. Abbassare l’inflazione, riducendo la pressione sui prezzi al consumo;
  2. Far calare i rendimenti dei titoli di Stato, rendendo più facile finanziare il debito;
  3. Ridurre il disavanzo commerciale, anche grazie a tariffe doganali;
  4. Spingere la Fed a tagliare i tassi d’interesse, allentando la stretta monetaria;
  5. Far scendere il prezzo del petrolio, aiutando consumatori e imprese.

Dopo l’aumento improvviso dei rendimenti obbligazionari, pare che la sola leva comunicativa – come gli annunci su nuovi accordi commerciali – non basti più a influenzare i mercati. Così, per alcuni, una recessione “strategica” potrebbe risultare più efficace di quanto sembri.

È una visione cinica, forse provocatoria, ma non del tutto fuori luogo nel contesto attuale: un’America che cerca di contenere il proprio debito senza sacrificare la crescita. E una politica economica dove, a volte, il male minore può sembrare l’unica strada possibile.

Scossa ad Harvard: l’amministrazione Trump vieta l’iscrizione di studenti internazionali

Una decisione che ha fatto tremare le fondamenta del mondo accademico americano: l’amministrazione Trump ha vietato ad Harvard University di accogliere nuovi studenti internazionali. È un colpo diretto a una delle istituzioni più rinomate degli Stati Uniti, simbolo dell’eccellenza accademica a livello globale.

La notizia è arrivata attraverso una lettera firmata da Kristi Noem, segretaria alla Sicurezza Interna, inviata giovedì alla direzione dell’università. Nel documento si comunica che Harvard ha perso la certificazione del programma per studenti e visitatori di scambio, un requisito indispensabile per poter iscrivere studenti stranieri. E l’effetto della revoca è immediato.

La misura si inserisce in un quadro più ampio di tensione tra l’amministrazione Trump e le università d’élite, che il presidente accusa da tempo di essere centri di diffusione di ideologie “woke” — un termine spesso usato in senso critico per indicare una sensibilità progressista verso temi sociali come razzismo, disuguaglianze e diritti civili.

Non solo: Harvard, come altre università, è stata criticata dalla Casa Bianca anche per la gestione di episodi di antisemitismo nei campus, giudicata insufficiente.

L’esclusione degli studenti internazionali rappresenta un duro colpo non solo per Harvard, che ogni anno attrae migliaia di candidati da tutto il mondo, ma anche per l’immagine degli Stati Uniti come polo accademico globale. In un contesto in cui l’istruzione superiore è spesso anche una diplomazia culturale, la decisione rischia di isolare ancora di più l’America dai giovani talenti stranieri.

Resta ora da capire se e come la storica università di Cambridge reagirà a questa mossa, e quali saranno le conseguenze per il panorama universitario nazionale e internazionale.

Addio al centesimo: gli Stati Uniti dicono basta alla moneta da un penny

È la fine di un’era per le monetine di rame che da più di un secolo tintinnano nelle tasche degli americani. Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha annunciato che presto non verranno più coniati penny: l’iconica moneta da un centesimo è destinata a scomparire.

La decisione, confermata da una portavoce del Tesoro e anticipata dal Wall Street Journal, arriva dopo anni di dibattito e porta con sé un risparmio significativo: ogni penny, infatti, costa quasi quattro centesimi per essere prodotto. Un paradosso che, secondo i calcoli del governo, pesa per circa 56 milioni di dollari ogni anno.

L’ex presidente Donald Trump aveva già lanciato la proposta di eliminarli lo scorso febbraio, presentandola come una misura di buon senso economico. Ora, con l’ultima ordinazione di metallo grezzo per i penny già effettuata, il conto alla rovescia è iniziato: una volta esaurite le scorte, la produzione sarà ufficialmente chiusa.

Gli Stati Uniti non sono i primi a compiere questo passo. Paesi come il Canada, la Nuova Zelanda e l’Australia hanno già abbandonato le loro monete da un centesimo, adattando la propria economia a un sistema di arrotondamenti automatici nei pagamenti in contanti.

Per molti americani, il penny non era più utile da tempo. Eppure, per altri, resta un simbolo culturale legato alla figura di Abraham Lincoln e al mito della parsimonia quotidiana. Con la sua uscita di scena, si chiude un piccolo ma significativo capitolo della storia monetaria degli Stati Uniti.

Anduril presenta Fury, il drone da combattimento che affiancherà i caccia americani

L’azienda statunitense Anduril, fondata da Palmer Luckey (creatore dell’Oculus Rift), ha svelato in anteprima il suo nuovo progetto per la US Air Force: Fury, un caccia da combattimento senza pilota, progettato per volare accanto agli aerei tradizionali come una sorta di “compagno leale”.

Un video concettuale mostrato dalla CBS ha simulato una missione in cui tre Fury volano in formazione davanti a un caccia pilotato, individuano un aereo nemico e lo attaccano prima che il pilota umano sia visibile o entro portata. In pratica, questi droni agiscono come esploratori armati e protettori del pilota.

Brian Schimpf, CEO di Anduril, ha spiegato:

“Questi droni volano davanti ai caccia pilotati, individuano per primi il nemico e possono ingaggiarlo molto prima che un caccia con pilota debba entrare in azione.”

Questo tipo di missione rientra nella nuova dottrina dell’Aeronautica USA, che prevede che i suoi futuri caccia più avanzati volino in formazione con droni autonomi oppure che i droni vengano impiegati in modo indipendente.

Fury sarà una componente chiave del F-47, il caccia stealth di sesta generazione sviluppato da Boeing. Tuttavia, il programma dovrebbe essere compatibile anche con i modelli attuali come l’F-35 Lightning II e l’F-22 Raptor.

Il progetto Fury rappresenta un passo concreto verso il futuro del combattimento aereo: uno in cui l’intelligenza artificiale e l’autonomia dei droni lavorano al fianco dei piloti, aumentandone la sopravvivenza e l’efficacia. Inoltre, produrre droni a basso costo e in grandi quantità potrebbe essere la risposta alla progressiva riduzione numerica della flotta americana. In un mondo in cui il dominio aereo è sempre più conteso, portare “massa nei cieli” è diventata una priorità strategica.