“La cosa importante è che l’economia cresca più velocemente del debito.” Con queste parole, il segretario al Tesoro Bessent ha riassunto una delle grandi verità dell’economia americana. Ma il grafico che accompagna la sua dichiarazione – diffuso dall’analista Luke Gromen – racconta una realtà più complessa: negli ultimi 60 anni, il rapporto debito/PIL degli Stati Uniti è diminuito solo in due tipi di scenari. O in periodi di alta inflazione, come tra il 1965 e il 1985 o più recentemente tra il 2020 e il 2023, oppure durante bolle speculative, come quella tecnologica degli anni ’90.
In entrambi i casi, gli investimenti a lungo termine in titoli del Tesoro americano (i cosiddetti “long-term USTs”) tendono a soffrire. Se l’inflazione cresce, il valore reale dei rimborsi futuri si erode. Se si forma una bolla finanziaria, i capitali si spostano su asset rischiosi e più redditizi, lasciando i titoli sicuri a rendimenti più bassi.
Ma è un’altra riflessione – riportata da The Kobeissi Letter – a far discutere gli osservatori: e se un rallentamento economico fosse, paradossalmente, proprio quello che Donald Trump desidera?
Secondo alcuni analisti, una recessione potrebbe aiutare Trump a raggiungere molti dei suoi obiettivi economici in un colpo solo:
Abbassare l’inflazione, riducendo la pressione sui prezzi al consumo;
Far calare i rendimenti dei titoli di Stato, rendendo più facile finanziare il debito;
Ridurre il disavanzo commerciale, anche grazie a tariffe doganali;
Spingere la Fed a tagliare i tassi d’interesse, allentando la stretta monetaria;
Far scendere il prezzo del petrolio, aiutando consumatori e imprese.
Dopo l’aumento improvviso dei rendimenti obbligazionari, pare che la sola leva comunicativa – come gli annunci su nuovi accordi commerciali – non basti più a influenzare i mercati. Così, per alcuni, una recessione “strategica” potrebbe risultare più efficace di quanto sembri.
È una visione cinica, forse provocatoria, ma non del tutto fuori luogo nel contesto attuale: un’America che cerca di contenere il proprio debito senza sacrificare la crescita. E una politica economica dove, a volte, il male minore può sembrare l’unica strada possibile.
Innanzitutto, la storia ci insegna che i conflitti cambiano forma. Infatti, si adattano e si trasformano costantemente. Come l’acqua trova sempre un passaggio, anche la guerra cerca nuovi canali quando quelli tradizionali vengono bloccati. Di conseguenza, le periferie svedesi ne sono oggi un esempio preoccupante.
Giovani reclute inconsapevoli
Ora, pensate a un ragazzino di 14 anni, magari il figlio del vostro vicino. Naturalmente, lo vedete tornare da scuola con lo zaino o un pallone. Tuttavia, in alcuni quartieri di Stoccolma, quel ragazzino potrebbe essere stato reclutato da una gang locale. Pertanto, potrebbe essere stato incaricato di compiere azioni violente contro obiettivi israeliani. Inoltre, il più delle volte, non sa nemmeno di essere una pedina in un gioco geopolitico.
L’Iran nell’ombra
Questa situazione ricorda chiaramente la Guerra Fredda. In quel periodo, le superpotenze evitavano il confronto diretto. Piuttosto, preferivano usare attori locali per combattere le loro guerre. Nel frattempo, il committente restava nascosto mentre in prima linea andavano soldati ignari.
Attualmente, l’intelligence svedese ha prove che dietro queste operazioni ci sia l’Iran. Senza dubbio, è una strategia raffinata. Dopotutto, perché rischiare incidenti diplomatici quando puoi sfruttare gang criminali locali? In effetti, gruppi come Foxtrot e Rumba sono già radicati nel territorio. Di conseguenza, hanno accesso a giovani vulnerabili e facilmente manipolabili.
Reclutamento sui social
Nel corso del tempo, il metodo di reclutamento è cambiato radicalmente. Mentre in passato si sfruttavano fame, disperazione o ideologia, oggi si usa TikTok. Allo stesso modo, si usano WhatsApp e chat criptate. In questi spazi, i giovani ricevono istruzioni per compiere attacchi.
Certamente, l’evoluzione è impressionante. In particolare, si è passati dai volantini della Prima Guerra Mondiale ai manifesti sovietici. Al giorno d’oggi, abbiamo tutorial su smartphone che insegnano ai ragazzi come diventare soldati in una guerra incomprensibile.
Un modello familiare
Anzitutto, chi conosce la storia del Medio Oriente riconoscerà il modello. In realtà, è la stessa strategia usata dall’Iran con Hezbollah in Libano o con le milizie in Iraq e Yemen. Si tratta di una guerra per procura dove chi tira i fili resta nascosto.
La novità, però, è che questo modello arriva nel cuore dell’Europa. Infatti, le periferie svedesi, con problemi di integrazione e disuguaglianza, diventano terreno fertile. Analogamente a quanto accaduto in alcune aree del Libano o dell’Iraq.
La doppia crisi svedese
A questo punto, la Svezia affronta due crisi contemporaneamente. Da un lato, l’escalation della violenza giovanile interna. Dall’altro lato, l’ingerenza di potenze straniere che sfruttano queste vulnerabilità per i propri obiettivi.
In sostanza, è una nuova forma di colonialismo. Non più economico o territoriale, ma “conflittuale”. Ovvero, l’esportazione di conflitti esterni in territori lontani, sfruttando le fragilità sociali locali.
Perché dovrebbe interessarci?
Prima di tutto, questa situazione rappresenta un cambio di paradigma nei conflitti contemporanei. Non parliamo di eserciti su campi di battaglia. Nemmeno di terroristi addestrati in campi specializzati. Al contrario, parliamo di ragazzi comuni che frequentano le nostre scuole. Ragazzi che improvvisamente diventano soldati di una guerra incomprensibile.
In poche parole, è la democratizzazione della guerra. Perciò non servono più grandi investimenti militari o complesse catene di comando. Al contrario, bastano uno smartphone, un’app di messaggistica e un adolescente in cerca di identità.
Quindi, se oggi questo accade in Svezia, domani potrebbe accadere in qualsiasi altra nazione europea. In fin dei conti, le fragilità sociali e i problemi di integrazione non sono un’esclusiva svedese.
La lezione della storia
In conclusione, ogni epoca ha le sue forme di conflitto. Naturalmente, sono plasmate dalle tecnologie disponibili e dai contesti sociali. Per esempio, dal telegrafo durante la Guerra di Crimea alla radio durante la Seconda Guerra Mondiale. Oggi, invece, abbiamo questo nuovo modello di “conflitto adolescenziale delocalizzato”.
La vera domanda, dunque, è: siamo preparati a questa nuova minaccia? Le nostre società hanno gli strumenti per riconoscerla e affrontarla? Oppure continueremo a pensare alla sicurezza in termini convenzionali?
In definitiva, la guerra oggi non si combatte più solo con i missili o i carri armati. Piuttosto, si combatte sui social network, nelle chat, nei cortili delle scuole. Inoltre, i soldati non indossano più uniformi riconoscibili. Infatti, potrebbero essere seduti accanto a voi sull’autobus. Con le cuffie nelle orecchie e uno smartphone in mano.
In sintesi, questa riflessione ci riporta all’essenza della storia: comprendere il presente guardando al passato. Solo così, infine, possiamo immaginare dove ci porterà il futuro.