L’Australia ha iniziato a spedire 49 carri armati M1A1 Abrams dismessi verso l’Ucraina. Si tratta di mezzi corazzati di fabbricazione americana, noti per la loro potenza ma anche per la complessità logistica e i costi elevati di manutenzione. I carri sono attualmente in viaggio via mare, anche se il governo australiano non ha rivelato dove si trovino o quando arriveranno, citando motivi di sicurezza.
Durante un incontro notturno a Roma, il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy ha ringraziato il primo ministro australiano Anthony Albanese per l’invio, confermando che la flotta è ufficialmente diretta al fronte.
I carri armati sono americani, quindi l’Australia, prima di cederli a un altro Paese, ha dovuto ottenere l’autorizzazione da Washington. Questa è una prassi comune nei contratti militari per controllare la destinazione finale degli armamenti sensibili.
Sebbene gli Stati Uniti abbiano dato il via libera, diversi funzionari a Washington hanno espresso, in forma anonima, frustrazione per la decisione australiana. Uno di loro ha spiegato che
“già l’anno scorso avevamo avvertito l’Australia: questi carri sono difficili da gestire, e una volta sul campo l’Ucraina potrebbe avere problemi a mantenerli operativi”.
Gli Abrams sono macchine molto avanzate, progettate per essere usate da eserciti dotati di una logistica complessa, pezzi di ricambio, carburanti speciali e tecnici qualificati. L’Ucraina, già sotto pressione per sostenere il suo esercito, potrebbe faticare a mantenerli in funzione.
Il ministro della Difesa australiano Richard Marles ha preferito non commentare direttamente queste preoccupazioni, ma ha assicurato che tutto si sta svolgendo in coordinamento con gli Stati Uniti e l’Ucraina.
Questa vicenda mostra come anche gli aiuti militari all’Ucraina siano soggetti a equilibri delicati tra alleati. Da un lato c’è il bisogno urgente di armamenti per resistere all’invasione russa, dall’altro ci sono dubbi sull’efficacia e la sostenibilità di certi equipaggiamenti. Inoltre, mette in luce il ruolo crescente dell’Australia nella coalizione di Paesi che supportano Kyiv, nonostante si trovi dall’altra parte del mondo.
Secondo un’inchiesta del New York Times, un missile terra-aria lanciato dagli Houthi ha quasi colpito un F-35 statunitense — il fiore all’occhiello della superiorità aerea americana — impegnato nell’Operazione Rough Rider. Il jet è stato costretto a manovre evasive per evitare l’impatto. In precedenza, gli Houthi avevano già abbattuto sette droni MQ-9 Reaper, del valore di circa 30 milioni di dollari ciascuno, ostacolando la capacità di sorveglianza USA nella regione.
Gli analisti avvertono che, nonostante i sistemi di difesa aerea Houthi siano considerati rudimentali, la loro alta mobilità e imprevedibilità li rende particolarmente insidiosi. Molti missili sono improvvisati, con sensori a infrarossi e armamenti riadattati, capaci di evitare la rilevazione anticipata anche dai radar americani più avanzati.
Inoltre, gli Houthi dispongono di sistemi moderni forniti dall’Iran, come i Barq-1 e Barq-2, capaci — secondo fonti del gruppo — di colpire a distanze fino a 70 km e altitudini oltre i 20.000 metri.
Lo scampato abbattimento di un F-35 da parte di un gruppo ribelle come gli Houthi solleva interrogativi gravi sulla vulnerabilità delle forze occidentali in scenari asimmetrici. L’incidente segnala anche la crescente efficacia delle armi iraniane distribuite a proxy regionali, trasformando i conflitti locali in banchi di prova per tecnologie avanzate. Se un caccia stealth di quinta generazione può essere minacciato da un SAM improvvisato o iraniano, le implicazioni per la sicurezza globale — e per un potenziale confronto diretto con Teheran — sono enormi.
Un rapporto del demografo Alejandro Macarrón (CEU-CEFAS), basato su dati dell’INE e di Eurostat, prevede che gli spagnoli nativi diventeranno minoranza in alcune province già dal 2035, e su scala nazionale a partire dal 2045, se le tendenze attuali non cambieranno. Le cause principali sono: bassa natalità, invecchiamento della popolazione e immigrazione non regolamentata. Le regioni più colpite saranno Catalogna, Paesi Baschi e Madrid, dove il sorpasso demografico avverrà tra il 2038 e il 2039.
Da quando Pedro Sánchez è diventato presidente del governo, si registrano oltre 620.000 spagnoli autoctoni in meno e più di 2,7 milioni di stranieri in più. Considerando anche i figli nati da madri straniere (quasi 600.000 dal 2018 al 2024), il saldo diventa ancora più netto: 1,2 milioni in meno di spagnoli nativi e 3,3 milioni in più di popolazione immigrata.
Al di là delle narrazioni ideologiche, lo studio solleva interrogativi concreti su futuro demografico, sostenibilità sociale, politiche migratorie e natalità. Una popolazione in rapido mutamento, senza strategia, può generare tensioni culturali, squilibri economici e fragilità nei sistemi di welfare.
La Germania ha posto fine alla sua opposizione all’energia nucleare in un importante cambiamento sotto la guida del cancelliere Friedrich Merz, accettando di sostenere gli sforzi francesi per trattare l’energia nucleare alla stregua delle energie rinnovabili nella legislazione dell’UE.
“Questo rappresenterà un cambiamento di rotta significativo,” ha affermato un funzionario tedesco, mentre un alto diplomatico francese ha osservato che “tutti i pregiudizi contro l’energia nucleare nelle leggi dell’UE saranno rimossi”.
Berlino sta anche esplorando una cooperazione più stretta con Parigi sulla deterrenza nucleare contro la Russia, con un funzionario tedesco che ha dichiarato:
Ora siamo finalmente aperti a parlare con la Francia della deterrenza nucleare per l’Europa. Meglio tardi che mai.
L’azienda statunitense Anduril, fondata da Palmer Luckey (creatore dell’Oculus Rift), ha svelato in anteprima il suo nuovo progetto per la US Air Force: Fury, un caccia da combattimento senza pilota, progettato per volare accanto agli aerei tradizionali come una sorta di “compagno leale”.
Un video concettuale mostrato dalla CBS ha simulato una missione in cui tre Fury volano in formazione davanti a un caccia pilotato, individuano un aereo nemico e lo attaccano prima che il pilota umano sia visibile o entro portata. In pratica, questi droni agiscono come esploratori armati e protettori del pilota.
Brian Schimpf, CEO di Anduril, ha spiegato:
“Questi droni volano davanti ai caccia pilotati, individuano per primi il nemico e possono ingaggiarlo molto prima che un caccia con pilota debba entrare in azione.”
Questo tipo di missione rientra nella nuova dottrina dell’Aeronautica USA, che prevede che i suoi futuri caccia più avanzati volino in formazione con droni autonomi oppure che i droni vengano impiegati in modo indipendente.
Fury sarà una componente chiave del F-47, il caccia stealth di sesta generazione sviluppato da Boeing. Tuttavia, il programma dovrebbe essere compatibile anche con i modelli attuali come l’F-35 Lightning II e l’F-22 Raptor.
Il progetto Fury rappresenta un passo concreto verso il futuro del combattimento aereo: uno in cui l’intelligenza artificiale e l’autonomia dei droni lavorano al fianco dei piloti, aumentandone la sopravvivenza e l’efficacia. Inoltre, produrre droni a basso costo e in grandi quantità potrebbe essere la risposta alla progressiva riduzione numerica della flotta americana. In un mondo in cui il dominio aereo è sempre più conteso, portare “massa nei cieli” è diventata una priorità strategica.
Il conflitto tra India e Pakistan continua ad aggravarsi, con bombardamenti lungo la Linea di Controllo del Kashmir e operazioni militari su entrambi i fronti. L’India ha lanciato attacchi su sei località pakistane, causando oltre 25 vittime civili, mentre Islamabad ha abbattuto cinque aerei indiani e colpito obiettivi militari in risposta.
L’Operazione Sindoor, avviata dall’India, è stata giustificata come ritorsione per l’attentato terroristico del 22 aprile a Pahalgam, che ha provocato 26 morti tra i turisti indiani. Nuova Delhi accusa Islamabad di sostenere gruppi armati responsabili dell’attacco, ma il Pakistan respinge le accuse, sostenendo che l’India stia cercando di destabilizzare la regione con offensive militari.
Sul piano diplomatico, Donald Trump ha annunciato un possibile cessate il fuoco immediato, frutto di negoziati internazionali guidati dagli Stati Uniti. Tuttavia, le tensioni restano alte e la tregua potrebbe essere fragile.
L’ONU ha espresso preoccupazione e ha sollecitato entrambe le parti alla moderazione. Nel frattempo, la Cina ha chiesto un approccio diplomatico per evitare un’escalation incontrollata, mentre il Regno Unito e la Francia monitorano la situazione con attenzione.
L’incertezza sulle intenzioni di entrambe le nazioni rende difficile prevedere l’evoluzione del conflitto. Se il cessate il fuoco verrà rispettato, sarà un primo passo verso la stabilizzazione della regione.
In un annuncio a sorpresa, il presidente russo Vladimir Putin ha offerto a Kiev di avviare negoziati diretti a Istanbul il 15 maggio, con l’obiettivo non solo di ottenere un cessate il fuoco, ma di porre le basi per un accordo di pace a lungo termine, senza condizioni preliminari. Putin ha accusato l’Ucraina e in particolare l’Occidente di aver sabotato le intese raggiunte nel primo anno di guerra.
Il leader del Cremlino ha confermato che le operazioni militari russe sono ancora in corso, ma ha dichiarato che Mosca sta considerando la possibilità di estendere la tregua di tre giorni già in vigore, a seconda dell’atteggiamento ucraino. Ha anche criticato duramente i recenti attacchi di Kiev su Mosca, definendoli intimidatori.
Putin ha infine ringraziato pubblicamente i Paesi che hanno sostenuto la Russia, citando in particolare la Cina, con cui ha annunciato un ulteriore rafforzamento dei legami in vista delle celebrazioni in programma a Pechino sulla fine della guerra contro il Giappone. Menzionati anche Brasile e Stati africani come alleati di rilievo.
Questa mossa apre, per la prima volta da mesi, uno spiraglio concreto verso una de-escalation diplomatica. Il fatto che la proposta venga senza condizioni e con una sede già fissata come Istanbul — neutra e simbolicamente forte — segnala una volontà, almeno formale, di trattare. Tuttavia, il linguaggio usato da Putin e le accuse a Kiev mostrano che resta alta la sfiducia reciproca. Resta da vedere se si tratterà di un vero passo verso la pace o solo di una manovra tattica in vista di pressioni internazionali e della visita imminente di Trump nella regione.
Dal 6 agosto 2024, le forze armate ucraine sono penetrate in territorio russo, occupando in poco più di due settimane circa 1000 km² di territorio della Federazione Russa, nell’oblast’ di Kursk.
L’attacco al territorio nazionale russo è un evento senza precedenti nella storia recente del Paese, che ci riporta inevitabilmente indietro di oltre 80 anni (escludendo il breve conflitto di frontiera sino-sovietico, di tutt’altra natura) all’invasione delle forze dell’Asse, avvenuta tramite l’Operazione Barbarossa il 22 giugno 1941.
Oltre ai proclami e ai riferimenti storici che circondano questa vicenda, l’operazione ucraina a Kursk ha tutt’altro significato, e le ripercussioni dell’attacco avranno non poca influenza sul futuro del conflitto e sulla bilancia strategica.
In questa breve analisi, rifletteremo sulle considerazioni strategiche prese dallo Stato Maggiore ucraino per valutare come auspicabile un’operazione offensiva in territorio russo in questo frangente bellico, e faremo una prima osservazione sui mutamenti dei rapporti di forza tra i due schieramenti in campo.
Contesto e situazione strategica:
L’esercito ucraino combatte da oltre un anno una guerra di attrito in posizione difensiva, dopo il fallimento dell’offensiva estiva nell’oblast’ di Zaporizhzhia nel 2023, che ha avuto come principali conseguenze il ritorno dell’iniziativa nelle mani delle forze armate russe e il lento logoramento dell’organico in servizio, riducendone i ranghi e la qualità.
Il 2024 non è stato un anno migliore per Kiev: iniziato con la perdita di Avdiivka nel Donbass, la crisi energetica a seguito della campagna aerea invernale russa, l’obbligatoria nuova mobilitazione militare e il rinnovato attacco russo all’oblast’ di Kharkiv, ha minato il supporto politico interno e internazionale allo Stato ucraino, in un lento calo dei consensi per Zelensky e i risultati del suo establishment, oltre che delle forniture di armamenti da parte degli Stati Uniti e i paesi NATO, nonostante le retoriche.
Per quale ragione un attacco in Russia?
Nonostante lo Stato Maggiore ucraino non abbia chiarito gli obiettivi operativi e strategici dell’operazione per ragioni di sicurezza, possiamo ipotizzare che le ragioni siano state molteplici e di diversa importanza:
Portare il conflitto in territorio russo è sempre stato uno degli obiettivi di Kiev per spingere l’establishment di Mosca a scendere al tavolo delle trattative, interrompendo l’operazione speciale a causa delle crescenti tensioni sociali e dell’instabilità interna causata dalle forze ucraine. A tal fine, l’Ucraina ha lanciato nell’inverno 2023 una campagna aerea con droni e sabotaggi per colpire in profondità il settore petrolchimico e infrastrutturale russo.
Distogliere l’attenzione delle forze armate russe in Ucraina dal Donbass per difendere il territorio nazionale attaccato, riducendo così la forte pressione che l’esercito ucraino patisce in diversi settori del fronte, a causa della superiore forza numerica e delle risorse schierate nella regione.
Elevare il morale dell’opinione pubblica interna e dimostrare agli alleati internazionali le capacità offensive ucraine, mostrando la capacità di poter ancora ribaltare le sorti del conflitto a favore dell’Ucraina, riaccentrando il sostegno politico/militare intorno al Paese.
Ottenere territorio di scambio con la Federazione Russa in vista di un possibile tavolo delle trattative, che presto o tardi arriverà e di cui anche il governo ucraino è ben consapevole.
Per quale ragione Kursk?
L’esercito ucraino ha individuato nell’oblast’ di Kursk un punto di debole presenza militare russa e una vantaggiosa conformazione morfogeografica che ha facilitato le azioni di penetrazione in profondità e che, in futuro, garantirà una buona capacità difensiva nel settore, grazie alla protezione dei fianchi offerta da due brevi fiumi (il Seym e il Psel) e alla presenza di poche decine di chilometri di terreno aperto, da difendere con forze adeguate.
Perché ora?
L’azione offensiva avviene in un contesto militare difficile per l’esercito e il governo ucraino, in cui la ricerca di vie d’uscita dalla guerra d’attrito nel Donbass e la necessità di consenso politico interno e internazionale hanno spinto gli organi decisionali a cercare alternative per riaprire la partita, tramite azioni ad alto rischio ma con potenziale ritorno elevato. Ciò è particolarmente rilevante in relazione all’incertezza delle linee rosse di Mosca e alla possibilità di creare una spaccatura nella società russa o nel suo establishment, segnando un punto di svolta per gli equilibri di forza tra i due Stati in futuro.
Osservazioni e considerazioni alla luce degli eventi avvenuti finora:
L’attacco intrapreso dal generale Syrs’kyj con il consenso politico di Zelensky dimostra che il più grande nemico di Kiev è il fattore tempo e che, nonostante i proclami, esso porterà inevitabilmente, prima o poi (al termine delle risorse belliche disponibili), le parti in conflitto a un tavolo delle trattative, in cui attualmente l’Ucraina non è favorita.
Nel tentativo di cambiare o ribaltare la situazione, l’Ucraina si è lanciata in una “fuga in avanti” per invertire una tendenza lineare che la conduce verso il plateau delle operazioni, seguito da un raffreddamento del fronte e, di conseguenza, dell’interesse internazionale per la questione ucraina.
Questo rischio è stato probabilmente il fattore principale che ha portato a tentare di sbloccare una situazione di stallo, se non addirittura di svantaggio, per le forze ucraine, incentivando la Russia a rispondere a un’escalation senza precedenti con azioni avventate ed emotive, che avrebbero potuto muovere nuove pedine in un sistema che tende a chiudersi su sé stesso in un campo d’azione sempre più limitato (soprattutto nel Donbass).
Tuttavia, allo stato attuale, le forze armate della Federazione Russa non hanno abboccato alla potenziale trappola di Kursk.
Putin e i vertici militari non hanno né dichiarato guerra all’Ucraina (proclamando lo stato d’invasione), né spostato ingenti forze dal fronte sud nel Donbass, preferendo invece spostare unità di minor qualità ed efficacia da fronti minori o da altri confini del Paese, principalmente dalla zona offensiva di Kharkiv (ora in stallo), a costo di una maggiore penetrazione ucraina in territorio russo nei pressi di Kursk.
In questo senso, la strategia russa punta al contenimento e all’esaurimento della spinta offensiva avversaria, creando una difesa elastica piuttosto che cercare di respingere con forza le truppe ucraine, qualitativamente superiori, dalla regione.
Per comprendere meglio il motivo di questa scelta, è necessario capire quali sono gli obiettivi strategici delle forze in campo e come essi stabiliscano una gerarchia di priorità tra le necessità militari e quelle politiche in guerra:
L’Ucraina mira a riportare il Paese ai confini del 1991 (o perlomeno del 2014), a entrare sotto l’ombrello di protezione della NATO/UE e a neutralizzare la forza militare e politica russa per i decenni a venire, costituendo una fonte di sicurezza per il futuro del Paese.
La Federazione Russa mira alla capitolazione (de facto) dell’Ucraina e all’assorbimento del Paese nella sfera d’influenza russa, o in alternativa alla creazione di uno stato cuscinetto tra la NATO e la Russia per proteggere i propri interessi nazionali.
A livello operativo, queste differenze comportano la definizione di diversi obiettivi militari che, da parte ucraina, si traducono in: riconquista dei territori persi nel 2022, con priorità per il Donbass, danneggiamento a oltranza delle capacità delle forze armate russe (attacchi a basi aeree, depositi, personale attivo, porti e altre infrastrutture strategiche) e logoramento della società ed economia russa tramite sabotaggi, infiltrazioni e danni d’immagine internazionali.
Da parte russa, invece, si traducono in: ultimazione della conquista del Donbass (priorità), annientamento delle capacità operative delle forze armate ucraine e crisi della società civile tramite distruzione delle infrastrutture energetiche e produttive del Paese.
Con queste informazioni, possiamo comprendere perché, nonostante il danno d’immagine politico interno subito, Putin non abbia optato per la risoluzione rapida dell’attacco a Kursk, preferendo mantenere il vantaggio sul campo nel Donbass, continuando a spingere sui fronti ora più sguarniti ucraini, alla ricerca del punto di rottura dell’avversario nella regione, per raggiungere quelli che per la Russia sono gli obiettivi operativi più importanti e che porterebbero in ultima analisi a una vittoria strategica.
Seguendo questa logica, dunque, le forze armate ucraine avrebbero impiegato le loro forze qualitativamente migliori ed esperte (una buona parte della riserva strategica nazionale) per un’operazione che, nonostante si sia rivelata una vittoria tattica e un parziale successo operativo (danno alla società russa e alle forze armate russe nella regione), non migliora in modo apprezzabile nessuno degli obiettivi strategici nazionali, fondamentali per dichiarare l’operazione di Kursk una vittoria strategica, a parità di forze e risorse impiegate. In ultima analisi, ciò decreta il fallimento del tentativo di far tremare le istituzioni russe e le loro forze armate, portando a cambiamenti reali nei rapporti di forza sul campo in grado di dare un vantaggio all’Ucraina nel lungo termine.
Conclusioni:
Nel prossimo futuro, l’operazione di Kursk proseguirà e si trasformerà nel tempo da un’azione offensiva a un’azione difensiva, con l’obiettivo di mantenere il più a lungo possibile il controllo del territorio russo e bloccare nella regione il maggior numero possibile di forze russe. È dunque prevedibile una situazione simile a quella portata avanti dalle forze russe nell’oblast’ di Kharkiv (con molto meno successo).
Alla luce degli eventi e delle scelte politico-militari, l’Ucraina è attualmente sotto forte pressione interna ed esterna, che sta incidendo e inciderà significativamente in futuro su ulteriori azioni ad alto rischio e di difficile previsione (persino da parte dei suoi stessi alleati), come ad esempio un’escalation con un attacco in forze al ponte di Crimea, nel tentativo di costringere la Federazione Russa a commettere azioni impulsive e altrettanto pericolose, alzando la posta per tutti gli attori coinvolti: NATO, UE, Cina, Ucraina e Russia; costringendo le parti ad aumentare il proprio coinvolgimento nel conflitto (o ad allontanarsene), portando così a Kiev il preziosissimo tempo necessario per migliorare la bilancia strategica nei confronti di Mosca.
Dopo 20 anni nel paese, le forze statunitensi e NATO stanno lasciando l’Afghanistan. Questo mese il presidente Biden ha annunciato che i restanti 2.500-3.500 militari statunitensi se ne sarebbero andati entro l’11 settembre. Sono passati esattamente 20 anni dagli attacchi dell’11 settembre di Al-Qaeda all’America, pianificati e diretti dall’Afghanistan, che hanno portato la coalizione guidata dagli Stati Uniti a rimuovere i talebani dal potere e temporaneamente cacciare Al-Qaeda.
Il costo di questi 20 anni di impegno militare e di sicurezza è stato astronomicamente alto: in vite umane, mezzi di sussistenza e denaro. Oltre 2.300 militari statunitensi sono stati uccisi e più di 20.000 sono i feriti. Ma sono gli afgani stessi ad aver sopportato il peso delle vittime, con oltre 60.000 membri delle forze di sicurezza uccisi e quasi il doppio di civili uccisi. Il costo finanziario stimato per il contribuente statunitense è vicino all’incredibile cifra di 1.000 miliardi di dollari.
Quindi la domanda da porsi è: ne è valsa la pena?
La risposta dipende da cosa si intende per “valere la pena”.
Facciamo solo un passo indietro e consideriamo il motivo per cui le forze occidentali sono entrate in primo luogo e cosa si erano prefissate di fare. Per cinque anni, dal 1996 al 2001, un gruppo terroristico transnazionale, Al-Qaeda, è riuscito a stabilirsi in Afghanistan, guidato dal suo carismatico leader Osama Bin Laden. Ha allestito campi di addestramento per terroristi, e ha reclutato e addestrato circa 20.000 volontari jihadisti da tutto il mondo. Ha anche diretto gli attacchi gemelli alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania nel 1998, uccidendo 224 persone, per lo più civili africani. Al-Qaeda ha potuto operare impunemente in Afghanistan perché protetta dal governo dell’epoca: i talebani, che avevano preso il controllo dell’intero paese nel 1996 in seguito al ritiro dell’Armata Rossa sovietica e ai successivi anni di devastante guerra civile.
Gli Stati Uniti, attraverso i loro alleati sauditi, hanno cercato di persuadere i talebani ad espellere Al-Qaeda, ma questi, hanno rifiutato. Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, la comunità internazionale ha chiesto ai talebani di consegnare i responsabili, ma ancora una volta i talebani hanno rifiutato. Così, il mese successivo, una forza anti-talebana di afghani conosciuta come l’Alleanza del Nord avanzò su Kabul, sostenuta dalle forze statunitensi e britanniche, cacciando i talebani dal potere e mettendo in fuga Al-Qaeda oltre il confine in Pakistan.
Questa settimana fonti di alto livello della sicurezza hanno riferito che da allora non è stato pianificato un solo attacco terroristico internazionale riuscito dall’Afghanistan. Quindi, in base alla pura misura dell’antiterrorismo internazionale, la presenza militare e di sicurezza occidentale è riuscita nel suo obiettivo.
Ma questa, ovviamente, sarebbe una misurazione grossolanamente semplicistica che ignora l’enorme tributo che il conflitto ha preso e continua a incassare sugli afgani, sia civili che militari. A distanza di vent’anni, il Paese non è ancora in pace. Secondo il gruppo di ricerca Action on Armed Violence, il 2020 ha visto più afgani uccisi da ordigni esplosivi che in qualsiasi altro paese al mondo. Al-Qaeda, Stato Islamico e altri gruppi militanti non sono scomparsi, sono risorti e senza dubbio incoraggiati dall’imminente partenza delle ultime forze occidentali rimaste.
Nel 2003, in un “incorporamento” in una remota base di fuoco nella provincia di Paktika con la 10a divisione da montagna dell’esercito americano, ricorda un veterano, Phil Goodwin, che gettava i suoi dubbi su quale sarebbe stata l’eredità della presenza militare della Coalizione. “Entro 20 anni”, ha detto, “i talebani riprenderanno il controllo della maggior parte del sud”. Oggi, dopo i colloqui di pace a Doha e l’avanzata militare sul campo, sono pronti a svolgere un ruolo decisivo per il futuro dell’intero Paese. Tuttavia, il generale Sir Nick Carter, capo di stato maggiore della difesa britannico, che ha prestato servizio in diversi tour in quelle zone, sottolinea che “la comunità internazionale ha costruito una società civile che ha cambiato il calcolo del tipo di legittimità popolare che i talebani vogliono”.
“Il paese è in una posizione migliore rispetto al 2001”, dice, “e i talebani sono diventati più aperti”. Il dottor Sajjan Gohel della Asia Pacific Foundation ha una visione un po’ più pessimistica. “C’è una vera preoccupazione”, dice, “che l’Afghanistan possa tornare al terreno fertile per l’estremismo che era negli anni ’90.” È una preoccupazione condivisa da numerose agenzie di intelligence occidentali.
Il dottor Gohel prevede che “ora ci sarà una nuova ondata di combattenti terroristi stranieri dall’Occidente che si recherà in Afghanistan per l’addestramento terroristico. Ma l’Occidente non sarà in grado di affrontarlo perché l’abbandono dell’Afghanistan sarà già stato completato”. Questo potrebbe non essere inevitabile. Dipenderà da due fattori: in primo luogo, se un talebano trionfante consentirà le attività di Al-Qaeda e IS nelle aree sotto il suo controllo, e in secondo luogo la misura in cui la comunità internazionale è pronta ad affrontarle quando non avrà più le risorse per Paese. Quindi il futuro quadro della sicurezza per l’Afghanistan è confuso. La nazione che le forze occidentali stanno lasciando quest’estate è tutt’altro che sicura. Ma pochi avrebbero potuto prevedere, negli inebrianti giorni successivi all’11 settembre, che sarebbero rimasti fino a due decenni.
“Quando ripenso ora ai vari viaggi di cronaca che ho fatto in Afghanistan, coinvolgendo le truppe statunitensi, britanniche ed emiratine, un ricordo spicca su tutti gli altri. Era in quella base di fuoco dell’esercito degli Stati Uniti a sole 6 km dal confine con il Pakistan, ed eravamo accovacciati su scatole di munizioni in un forte con mura di fango sotto un cielo pieno di stelle. Tutti avevano appena banchettato con bistecche texane arrivate da Ramstein in Germania e la raffica di razzi talebani che in seguito ha colpito la base non era ancora arrivata.”
Un soldato diciannovenne dello stato di New York ci ha raccontato di aver perso molti dei suoi amici durante la sua permanenza lì. “Se è il mio momento, è il mio momento”, ha alzato le spalle. Poi qualcuno ha tirato fuori una chitarra e ha dato un’interpretazione perfetta della canzone dei Radiohead, Creep. Finiva con le parole: “Cosa diavolo ci faccio qui? Non appartengo a questo posto”. E ricordo di aver pensato in quel momento: no, probabilmente non lo facciamo”.
Un’inutile provocazione della Regia Marina o il legittimo esercizio di un diritto di passaggio in mare?
Dipende dal tuo punto di vista.
La Gran Bretagna, fortemente sostenuta dall’Ucraina, insiste sul fatto che l’HMS Defender stesse prendendo la via più breve e diretta attraverso il Mar Nero, da Odessa, in Ucraina, alla Georgia.Ma quella rotta passa a poche miglia dalle coste della penisola di Crimea, annessa dalla Russia nel 2014 con una mossa condannata dall’Occidente e mai riconosciuta a livello internazionale.
Non è così che la vede Mosca.
Nonostante una serie di sanzioni imposte all’epoca, ha dipinto l’annessione della Crimea, usando come motivazione, la numerosa popolazione di etnia russa, con la restituzione della penisola al suo legittimo proprietario: la Russia. Il porto di Sebastopoli, vicino all’incidente di mercoledì, ospita un’importante base navale russa e la sua flotta del Mar Nero. Quindi, quando un moderno cacciatorpediniere di tipo 45 proveniente da uno stato “ostile” della Nato (Gran Bretagna) viaggia per oltre 6.000 miglia (9.656 km) dal suo porto di origine per navigare attraverso quelle che Mosca considera le proprie acque territoriali, la Russia lo vede come una provocazione aggressiva .
Da qui i suoi rabbiosi avvertimenti alla radio della nave e il ronzio ravvicinato del cacciatorpediniere della Royal Navy da parte dei bombardieri Su-24.
La Gran Bretagna è stata sorpresa dalla forza della reazione russa?
Non proprio, dicono fonti della difesa, poiché hanno fatto qualcosa di simile l’anno scorso. Ma non sarebbe saggio minimizzare un incidente come questo. I rapporti tra Gran Bretagna e Russia sono già al fondo, a seguito delle accuse (smentite dalla Russia) di aver inviato due ufficiali dell’intelligence del GRU a Salisbury nel 2018 per avvelenare un’ex spia con l’agente nervino Novichok.
Insieme al precedente avvelenamento di Alexander Litvinenko con il polonio, all’annessione della Crimea da parte della Russia, ai suoi presunti attacchi informatici e all’hacking delle istituzioni democratiche occidentali, c’è quasi zero fiducia tra i due paesi. Un recente rapporto di Whitehall ha descritto la Russia come la più grande minaccia militare che questo paese deve affrontare. È importante tenere a mente, che la Russia considera l’intera Ucraina, il Mar Nero e la penisola di Crimea come il suo “vicino all’estero”, il suo cortile di casa.
Solo 30 anni fa la Russia era al centro di un enorme impero, l’Unione Sovietica, che, insieme ai suoi alleati del Patto di Varsavia, si estendeva dai confini della Germania all’Afghanistan e oltre. Oggi molti di quegli ex territori e stati alleati, come la Polonia e gli stati baltici, sono entrati nella Nato. Quindi la Russia si sente circondata, e questo è un posto pericoloso dove stare. Eppure, per quanto drammatici possano sembrare gli eventi di mercoledì, questa potrebbe finire per essere solo una prova generale per un test più grande a venire. HMS Defender fa parte dell’UK Carrier Strike Group, guidata dalla nuova portaerei della Royal Navy HMS Queen Elizabeth. Si è staccato all’inizio di questo mese per fare questa visita nel Mar Nero mentre il resto della flotta si esercitava nel Mediterraneo.
Come parte della nuova politica estera e di difesa “progressiva” del Regno Unito delineata nella recente revisione integrata del governo, la flotta si dirigerà presto verso est verso il Mar Cinese Meridionale. Lì, insieme ad altre nazioni, sfiderà le pretese della Cina su una vasta area di mare contesa che confina con diversi paesi. Pattuglie aeree e marittime cinesi, che spesso operano da scogliere costruite artificialmente, hanno avvertito le navi che si allontanano da quest’area che Pechino considera parte delle proprie acque territoriali. Ma quando la flotta della portaerei navigherà attraverso il Mar Cinese Meridionale, ci saranno molte persone con il fiato sospeso per vedere come reagirà la Cina.